L’ultimo studio del Jrc compara tutte le tecnologie disponibili. A cura di Mario A. Rosato

Il Jrc (Joint research centre, Centro comune per la ricerca) è l’istituzione che coordina la comunità scientifica europea ed elabora i rapporti tecnico-scientifici sui quali il Parlamento europeo dovrebbe poi definire le sue politiche di sviluppo. L’ultimo studio in materia di efficienza energetica ed emissioni di CO2 nel settore dei trasporti è stato pubblicato a fine settembre 2020. Si tratta di un lavoro analitico colossale, che include oltre 1.500 combinazioni di vettori energetici e tecnologie di produzione e conversione.

Ad esempio, consideriamo il caso del bioetanolo. Esso si può produrre a partire da sostanze saccarine, amidacee o lignocellulosiche, e si può utilizzare in motori a ciclo Otto con accensione elettrica oppure ad iniezione diretta, oppure convertire in Etbe misto a benzina, oppure in biodiesel sintetico, che in tale caso andrebbe utilizzato in veicoli con motore diesel. Teoricamente l’etanolo si potrebbe utilizzare anche in celle a combustibile, ma poiché non è una tecnologia disponibile a livello commerciale, non è stata considerata. Sono dunque tre possibili processi di produzione del biocarburante per quattro possibili tecnologie di utilizzo, quindi dodici possibili combinazioni, che diventano trentasei se consideriamo che i veicoli possono a loro volta essere autovetture o autobus per trasporto pubblico o camion per trasporto di merci.

Lo studio si articola in tre sezioni: il ciclo well to tank (dalla fonte di approvvigionamento fino al serbatoio del veicolo), il ciclo tank to wheel (dal serbatoio del veicolo alle ruote) e la combinazione well to wheel (dalla fonte alla ruota, ovvero il ciclo completo di produzione, trasporto, distribuzione e consumo del vettore energetico). Il “riassunto” finale sul ciclo completo, applicato alle autovetture, consiste in centocinquanta pagine.

In questo articolo verranno tralasciate le analisi relative ai biocarburanti sintetici “Hi Tech” (ad esempio ossimetiletere o dimetil etere), fornendo solo le informazioni relative al biodiesel, al bioetanolo, al biometano, e ciò limitatamente al loro utilizzo in motori convenzionali. Benché ancora non esistano nel mercato automobili a celle di idrogeno, lo studio del Jrc ha incluso questa tecnologia fra quelle che si prospettano disponibili entro il 2025.
Poiché l’autore ha espresso diverse perplessità sulla dottrina dell’”idrogeno pulito” in un articolo precedente, ha ritenuto doveroso includere le analisi del Jrc affinché il lettore possa trarre le proprie conclusioni.

Le foto presentate in questo articolo sono quelle pubblicate nel rapporto del Jrc, i cui testi sono stati tradotti dall’autore. La dicitura Wltp significa Worldwide harmonized Light vehicles test procedure (Procedura di prova di veicoli leggeri armonizzata a livello mondiale) e indica la metodologia con cui sono state misurate le emissioni di CO2.

Etanolo

L’etanolo è sempre stato uno dei biocarburanti più controversi, in quanto ritenuto poco sostenibile. La sua produzione richiede molta energia, di fronte ad un Pci (Potere calorifico inferiore) più basso rispetto alla benzina che dovrebbe sostituire. Di conseguenza, le sue emissioni di CO2 per chilometro percorso sono maggiori rispetto agli altri biocarburanti. Le emissioni migliorano notevolmente nei cicli produttivi con criteri di economia circolare. Ad esempio, l’etanolo di prima generazione può avere meno emissioni associate se le trebbie residue della fermentazione vengono recuperate come mangime per animali, oppure avviate a digestione anaerobica (Foto 1).

Alcune tecnologie di produzione di bioetanolo a confronto con la benzina, e miscele etanolo benzina, nel caso di utilizzo in veicoli ad accensione elettrica con iniezione diretta
Foto 1: Alcune tecnologie di produzione di bioetanolo a confronto con la benzina, e miscele etanolo benzina, nel caso di utilizzo in veicoli ad accensione elettrica con iniezione diretta
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Biodiesel

Il biodiesel si può produrre in due modi:

  • mediante transesterificazione degli acidi grassi, solitamente a partire da olio vegetale raffinato, nel cui caso si chiama Fame (Fatty acid methyl ester), il cui sottoprodotto inevitabile è il glicerolo grezzo (Foto 2);
  • mediante l’idrogenazione, solitamente degli oli da cucina esausti e olio di palma. Si chiama Hvo (Hydrogenated vegetable oil) anche quando viene prodotto con grassi animali residui. L’Hvo, per la sua propria natura “Hi Tech” è un processo più efficiente della transesterificazione, quindi non produce glicerolo ma in compenso richiede molta più energia (Foto 3).
Alcune tecnologie di produzione di Fame a confronto con il gasolio, utilizzo in veicoli diesel
Foto 2: Alcune tecnologie di produzione di Fame a confronto con il gasolio, utilizzo in veicoli diesel
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Hvo a confronto con il gasolio, utilizzo in veicoli diesel
Foto 3: Hvo a confronto con il gasolio, utilizzo in veicoli diesel
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Biometano

Il metano prodotto dalla gassificazione delle biomasse è altrettanto “bio” come quello prodotto dalla digestione anaerobica, ma per differenziarli vengono chiamati “metano sintetico” e “biometano“, rispettivamente. È pure sintetico il metano prodotto da CO2 e H2, non necessariamente è “bio” ma le sue emissioni associate sono base quanto quelle del biometano, a condizione che l’H2 sia “pulito”, cioè prodotto con energie rinnovabili. La CO2 può provenire da combustione, anche da combustibili fossili, o da cattura atmosferica o da altre fonti, come ad esempio le emissioni dei pozzi vulcanici.

Si osserva che fra tutte le alternative, il biometano prodotto da deiezioni animali è il biocarburante che consente il massimo risparmio di emissioni di CO2 (emissioni negative) a condizione che il digestato venga stoccato in vasche a tenuta stagna. Il conteggio delle emissioni diventa negativo perché l’”opzione zero”, cioè non avviare le deiezioni o la Forsu a digestione anaerobica, comporta emissioni incontrollate di CH4 e CO2. Le analisi della massima autorità europea in materia di ricerca scientifica dimostrano, ancora una volta, la fallacia dei “comitati del no” che si oppongono alla costruzione di impianti di biogas, agricoli e alimentati con Forsu.

Biometano da diverse origini a confronto con gas naturale e benzina
Foto 4: Biometano da diverse origini a confronto con gas naturale e benzina
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Idrogeno

Le emissioni di CO2 di un veicolo ad idrogeno sono molto variabili in funzione della tecnologia con cui l’idrogeno venga prodotto. Come si può osservare nella Foto 5, un veicolo a celle di combustibile alimentato con idrogeno prodotto da carbone avrebbe emissioni addirittura maggiori dello stesso veicolo alimentato a gasolio o benzina. Se l’idrogeno fosse “pulito”, come postulato dal Green deal, le emissioni sarebbero molto basse, ma comunque non nulle e comparabili a quelle dei cicli più virtuosi dei biocarburanti da biomasse residue. Osserviamo ancora una volta che il biometano da deiezioni animali è l’unico biocarburante che comporta emissioni negative, ma la conversione in idrogeno comporta un certo consumo di energia. È per tale motivo che, malgrado l’efficienza delle celle ad idrogeno superi di gran lunga quella dei motori endotermici, a conti fatti un veicolo alimentato ad “idrogeno pulito” emette più CO2 dello stesso veicolo alimentato a biometano.

Esiste anche l’opzione (per ora solo teorica) di produrre l’idrogeno mediante il reforming del biometano ricavato da letame. Un tale “idrogeno pulito” diventa ancora più “pulito” rispetto a quello prodotto mediante elettrolisi con energia solare o eolica, le emissioni sono negative precisamente grazie al biometano. È dunque giusto chiedersi, e chiedere a chi governa: Per quale motivo si dovrebbero sprecare miliardi di euro di fondi pubblici per incentivare la produzione e distribuzione di “idrogeno pulito”, quando si può utilizzare l’infrastruttura di gasdotti, stazioni di servizio e autovetture esistenti e incentivare di più le imprese agricole che colossi industriali?

Idrogeno in veicoli a celle di combustibile
Foto 5: Idrogeno in veicoli a celle di combustibile
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Conclusioni

Ricapitolando:

  • un veicolo a benzina emette 128 grammi equivalenti di CO2/chilometro;
  • uno a gasolio 121 grammi equivalenti CO2/chilometro;
  • il migliore ciclo a bioetanolo non è quello di seconda generazione come vorrebbe la direttiva europea sulle energie rinnovabili (Red II), bensì la classica fermentazione del frumento abbinata al recupero delle trebbie come mangime animale: 15 grammi equivalenti CO2/chilometro;
  • il migliore biodiesel Fame è quello da olio di cucina esausto, 12 grammi equivalenti CO2/chilometro;
  • il migliore biodiesel Hvo è quello da olio di cucina esausto, 15 grammi equivalenti CO2/chilometro;
  • il biometano da reflui zootecnici comporta emissioni negative, quindi compensa in parte le emissioni degli altri combustibili, fossili e non: -140 grammi equivalenti CO2/chilometro;
  • l’idrogeno pulito proveniente da energia eolica, utilizzato in un veicolo a celle di combustibile, emette comunque 8 grammi equivalenti CO2/chilometro. Certamente emissioni quasi nulle, ma non molto diverse di quelle dei migliori biocarburanti, e di gran lunga più alte rispetto al biometano. Con l’aggravante che, per poter adottare tale tecnologia, sarebbe necessario un investimento plurimiliardario per sviluppare una tecnologia di celle a combustibile che non richieda catalizzatori al platino per poter raggiungere efficienze elevate, oltre all’infrastruttura necessaria per produrre l’idrogeno, trasportarlo, stoccarlo, garantire che tali auto possano circolare in totale sicurezza.

Per quale motivo, allora, la “potenza di fuoco” del Green deal non è stata indirizzata verso un’economia basata sul biometano agricolo?

Fonti dei dati e delle foto

Fonte Agronotizie